La mia vita scorreva tranquilla.
Certo, qualche problema c’è sempre ma si cerca di superarlo in qualche modo. Il lavoro, la famiglia, la banca sono pronte a darti una mano, pagando sempre di tasca propria.
Poi, nel 2006, mi hanno diagnosticato una strana malattia, la Sla, e da lì mi sono ritrovato a correre da un ospedale all’altro in cerca di un miracolo. Ma il miracolo non l’ho trovato, e non ho trovato nemmeno una cura. Non ero disperato inizialmente, speravo che fosse un errore dei medici. Così, sperando nel nulla, sono passati i giorni, le settimane e i mesi e senza che me ne accorgessi sono dimagrito di più di 20 chili. Una ottima soluzione per chi vuole dimagrire, ma io ero già sottopeso. Non riuscivo più a deglutire bene e si vedeva, ma quello che mi ha fregato è che mi vergognavo di farmi vedere dagli altri in quelle condizioni. Ricordo ancora quando sono andato in pizzeria e al ristorante con i miei amici che non riuscivo a usare la forchetta e il coltello per tagliare la pizza o la carne e mi sentivo gli occhi di tutti addosso. Quando il corpo non funziona più bene ci vuole un po’ di tempo per adattarsi alla nuova situazione e il mio cervello faceva fatica ad accettarlo. Problema
mio? Non credo, perché quando il corpo diventa difettoso si va incontro ad una serie di limitazioni difficili da affrontare.
Provate a legare una mano dietro la schiena mentre vi state alzando la mattina, vi lavate, vi vestite e mettete le scarpe per uscire. Scoprite cosa vuol dire perdere un po’ di autonomia. Pesavo 48 chili quando mi hanno messo la PEG, la sonda per la nutrizione esterna, e finalmente ho ripreso un po’ di vigore. Il personale era gentile e premuroso, forse anche perché sanno che sei un condannato. Ma questo è servito a tirarmi su di morale. Mi hanno messo anche un campanello vicino alla testa per chiamare quando avevo bisogno, ma le operatrici erano così attente che non ce n’era la necessità.
La vera sfida l’ho vista al Nemo, dove ho conosciuto le prime persone che hanno scelto di non vivere con la Sla. Fino a quel momento non mi ero posto il problema perché pensavo che fosse la fine naturale di chi ha contratto questa patologia. Ma la ricerca scientifica è stata in grado di fornire le apparecchiature di supporto ottimali per garantire una ventilazione efficace a chi non respira in autonomia e così si può vivere tranquillamente per anni e anni senza problemi.
Oggi si discute tanto sul diritto di scegliere tra la vita e la morte dei malati gravi.
Il punto è che non ci sono i protagonisti della scelta a discutere per elaborare una legge equilibrata, ma ci sono i teorici, i politici, i giornalisti e i social. La mia domanda è: “Cosa ne sanno tutti questi di cosa passa per la testa di chi si trova veramente davanti al bivio?”. Ci sono dinamiche personali che cambiano continuamente e che vengono influenzate da fattori come la cultura, l’educazione, le emozioni e la fede. La tegola in testa può cadere a tutti, ma quando si compila il testamento biologico chi può sapere cosa “sente” chi è in stato vegetativo? Chi ha l’Alzheimer deve porre fine ai propri tormenti per trovare la pace? Ma mi viene il dubbio che il problema sia più estetico che di contenuti, una pulizia sociale che sistema le cose.
Sembra che chi sceglie la morte è coraggioso e va citato nei tg e chi vuol vivere e godersi il resto della vita in situazioni difficili è un temerario. Forse è arrivato il momento di dare più modelli di vita che di morte, di “educare” alla speranza…
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