Ho sempre amato correre nei prati, vicino a casa mia a San Fruttuoso ce n’erano tanti negli anni ’60. Poi c’era l’oratorio con il suo sterrato e il cortile della scuola, dove il maestro Zamagna ci portava spesso a giocare al pallone e ci mostrava il suo tiro preferito: il calcio all’ungherese. Era un tiro che imprimeva alla palla un effetto strano che rendeva la traiettoria imprevedibile e che nel tempo
perfezionai.
Non era così facile acquistare le scarpe da calcio in quegli anni, ma si usavano le scarpe da tennis bianche e blu di tutti i giorni, fino a distruggerle. Gli scarpini da calcio erano roba da ricchi, specialmente per noi bambini delle elementari che crescevamo a vista d’occhio. Un’altra rarità era il pallone di cuoio, per noi andava bene quello arancione di gomma. E se si bucava, si giocava lo stesso. I campi intorno al paese cominciavano a essere preda di cantieri edili, una opportunità per noi bambini di prelevare qualche asse per fare le porte e dare una parvenza di
campo di calcio. Era il nostro stadio.
Il calcio vero che si vedeva in TV rappresentava per noi bambini una specie di sfida epica, dai contorni mitici, dove i calciatori assumevano il ruolo dei Cavalieri più famosi. Era un vanto seguire le squadre per le quali si tifava e sfoggiare le figurine di campioni come Sivori, Rivera, Mazzola, Riva, Facchetti, per citarne alcuni, che erano le bandiere delle squadre di calcio più importanti e che davano vita a partite in cui l’adrenalina scorreva nelle vene di giocatori e spettatori. Figuriamoci poi nelle partite di Coppa, dove gli scontri con le squadre europee più forti come Real Madrid, Benfica, Manchester United, Ajax, Arsenal, Bayern, Liverpool e altre si contendevano il premio più ambito in sfide memorabili.
Ma l’apoteosi di tutto si raggiungeva nelle partite dei Mondiali di calcio, come nella indimenticabile semifinale del ’70 tra Italia e Germania che tenne incollati davanti ai televisori milioni di italiani. Che squadre fenomenali, correvano tutti esprimendo un gioco corale dove i più bravi esaltavano il gioco di quelli che venivano definiti “operai del calcio italiano”, indispensabili polmoni di centrocampo che sviluppavano il gioco difensivo e alimentavano quello di attacco. Era il gioco umile e produttivo che contraddistingueva il nostro sistema di gioco e si adattava alle nostre caratteristiche fisiche, ma che dava risultati discontinui, ma talvolta esaltanti. Era un gioco artigianale, tipico della nostra genialità e capacità di improvvisazione e di adattarsi alle situazioni.
Oggi il calcio si è trasformato in una industria, conta soprattutto il profitto, sono interessati tutti solo ai soldi. Certe squadre hanno un bilancio che assomiglia a una manovra finanziaria e a certi calciatori vengono attribuiti valori che lasciano allibiti e ricevono stipendi che sono uno schiaffo morale se si guarda alla povertà crescente generata da quella società globale che ci stanno imponendo. Come si fa ad amare un calcio così povero di sentimenti e dove vince chi ha più soldi?
La mia passione per questo sport è svanita, è meglio andare a vedere i bambini che corrono negli oratori.
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