SLA: andarsene o restare?

Pubblicato il

26 Set 2022

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Poche persone, le conto su una mano, mi hanno fatto la domanda che molti certamente avrebbero desiderato farmi. Intendo molti di quelli che non mi conoscono, perché chi mi conosce a fondo sa che non esiste pensiero più lontano da me dell’interrompere una vita, in una qualunque delle sue forme. I pochi che me l’hanno domandato, l’hanno fatto per iscritto, non guardandomi negli occhi.

La domanda è semplice: hai mai pensato alla morte come a una liberazione da una vita così?

Sì, non ho potuto fare a meno di pensarci, perché quando la malattia, nella sua spietata progressione, ha colpito anche i muscoli respiratori, è arrivato il momento di decidere se lasciare che la malattia facesse il suo corso arrendendomi a lei, lasciando questa vita, oppure scegliere di vivere, di combattere affidandomi a una macchina. Non ho preso in considerazione la prima strada. Faccio fatica ad ammazzare le formiche, come potevo scegliere di morire, lasciandomi dietro una scia di vuoto e di domande in chi lasciavo. Soprattutto nei miei figli, perché un genitore che sceglie di morire lascia un macigno sul cuore dei suoi figli. Uno specialista che da tempo controllava con una macchinetta l’andamento delle mie apnee notturne, mi ha comunicato che era arrivato il momento di decidere. Pochi giorni dopo mi hanno fatto la tracheostomia. Mi aveva spiegato grossomodo le conseguenze di questa scelta, ma nessuno sa veramente cosa signifIchi vivere con un tubo in gola, se non ha provato. Comporta un cambiamento radicale della propria normalità.

Sono cambiamenti che pesano su tutta la famiglia, per questo a volte mi chiedo se non sia stata una scelta egoista la mia, perché da quando sono in simbiosi con la mia scatoletta che respira, non posso più stare sola in casa: la cannula, il tubo di plastica infilato nella trachea, ogni tanto si riempie di secrezioni bronchiali che vanno aspirate per liberare il passaggio di aria. Chi sta in casa con me, oltretutto, deve saper fare questa operazione, molto delicata e non semplice, soprattutto a livello emotivo per chi la esegue. Altri cambiamenti vengono tenuti poco in considerazione, eppure sono difficili da accettare. Mi riferisco per esempio alla scomparsa della voce: l’aria non passa più attraverso le corde vocali, con conseguenze non da poco, perché si perde la possibilità di parlare. Anche se nel mio caso era un linguaggio già molto compromesso, la voce mi serviva per chiamare, soprattutto di notte quando ho bisogno di broncoaspirare, o di cambiare posizione delle gambe che fanno male, ferme immobili per ore.

Potrei continuare all’infinito a raccontare le conseguenze derivate dalla presenza della trachestomia, ma tutto questo, e il resto su cui evito di dilungarmi, può capirlo solo chi lo vive. Gli altri lo sanno, vedono, possono immaginare, ma capire no. Poi c’è qualcuno che non può scegliere, perché viene sorpreso da una crisi respiratoria. Se non è cosciente viene salvato dalla morte con una tracheostomia, e quando riprende conoscenza si ritrova una cannula in gola con tutte le conseguenze alle quali ho fatto cenno. Ora, cosa succede se un malato, dopo anni di questa vita, sente di non farcela più e vuole essere accompagnato a morire? Non può, perché la legge italiana mostra una certa incoerenza: possiamo scegliere di rinunciare alla vita rifiutando la tracheostomia, ma dopo, se vogliamo esercitare la stessa libertà di scelta per staccare il respiratore, no!

Ci vuole una legge, ma chi ha il potere di fare le leggi difficilmente è a conoscenza di cosa significhi condurre una vita del genere, non sa quanto dev’essere difficile condurre una vita del genere, non sa quanto dev’essere difficile decidere di dire basta, Nemmeno io lo capisco. Nemmeno io capisco quanto sia difficile per un genitore, per un figlio, per chi ama, interrompere una vita allo stato vegetativo. Prima di legiferare, i nostri parlamentari, sempre in ottima salute, dovrebbero ascoltare i malati con tanto cuore, vivere con loro giorno e notte per decidere poi con un minimo di consapevolezza.

Io ho una mia idea sul fine vita assistito, che credo sia evidente da ciò che ho scritto, per questo preferisco non entrare in dettaglio, per rispetto del dolore di chi fa una scelta diversa. Posso dire che per poter sopportare una condizione di immobilità totale, e scoprirsi comunque felici, sono fondamentali alcune cose. La prima, è tutto ciò che la SLA non mi ha portato via. Sono i miei figli, Franco, la mia famiglia, tanti amici. Sono la mia ragione di vita. La seconda è l’accettazione. Rifiutare questa realtà odiando il destino, è come restare in un angolo a ringhiare, per la paura di trovarsi in una casa sconosciuta e senza finestre.

Accettare la malattia è il primo passo verso la serenità.

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L’autore

Laura Tangorra

Insegnante e Scrittrice

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