È un mistero il modo in cui la nostra mente riesca a fermare certi momenti del nostro vissuto, che il ricordo poi rievoca in modo imprevisto, richiamato da un profumo, da un sogno, da una musica. Ed ecco che riemergono dal passato come video in bianco e nero, eppure ricchi di dettagli che sembra impossibile poter ricordare. Alcuni momenti della nostra vita invece sembrano scomparsi, o nascosti in angoli della mente che la memoria non riesce (o non vuole) ritrovare.
Tra i miei ricordi incancellabili che più spesso tornano a galla, ci sono le vacanze di quando ero bambina. Il giorno prima della partenza era bellissimo per noi, perché nel pomeriggio era previsto il momento magico delle liquirizie: ognuna di noi riceveva dalla mamma, in via del tutto eccezionale, la bellezza di 100 lire. Con la sensazione di avere il mondo in mano, correvamo in quello che per noi era il negozio dei desideri, l’ortolano, che nella parte anteriore del bancone aveva una fantastica esposizione di caramelle. Liquirizie di ogni tipo, e con 100 lire riempivamo per metà un sacchetto di carta bianca che a me sembrava enorme, ma probabilmente non lo era aff atto. Stringhe, pesciolini, radici, bastoncini duri che succhiando con pazienza, un’estremità diventava a punta.
Quei sacchetti bianchi erano una tentazione per noi, ma non volevamo toccarli prima del viaggio. Lo confesso, qualche volta io non ho resistito al richiamo. La sera si caricavano le valigie nel bagagliaio, compito di papà, che come sempre brontolava perché i bagagli non ci stavano. “A che vi serve tutta questa roba!” La mattina si partiva presto, all’alba. Noi tre, gasate come non mai, con la scusa di non rovinare i letti per quelle poche ore di sonno, dormivamo sul divano, già vestite con i nostri pantaloni alla zuava di velluto a coste marroni, che sapevano di montagna. Alla sveglia della mamma saltavamo in piedi, pronte, col sacchetto di liquirizie in mano, ognuno il suo. Appena montate in macchina cominciavano i battibecchi: – non stare sdraiata così, che noi non ci stiamo – non sono sdraiata, stringi le gambe tu piuttosto – sei sempre la solita… – se stai così io non vedo la strada, poi mi viene da vomitare.
La mamma ci metteva a tacere accendendo la magica voce di Mina sul mangianastri a pile. Oggi mi basta sentire poche note di È l’uomo per me, La banda e tante altre, per ritrovarmi seduta sul sedile della nostra Fiat 125 a succhiare liquirizia. Partendo all’alba, e nonostante le soste per il vomito, arrivavamo in Trentino molto presto. La meta era sempre la stessa: Andalo, qualche volta in albergo, qualche volta in appartamento. Ricordo ancora il rumore dei nostri passi sui balconi di legno scuro, mentre giocavamo controllando se arrivavano gli amici dei nostri genitori. Trascorrevano le vacanze nella stessa palazzina o nello stesso hotel in cui stavamo noi, e poiché avevano due fi glie della nostra età, noi passavamo tutte le nostre vacanze con Laura e Claudia. Con loro giocavamo nei prati vicino a casa assaporando il gusto della libertà, dell’avventura. Ridevamo tantissimo. E sempre con loro camminavamo verso questo o quel rifugio, maledicendo le salite e tutti quelli che, incrociandoci sul sentiero mentre tornavano a valle, ci assicuravano il rifugio è dietro quella collinetta, ma non c’era mai.
Un’estate avevamo trovato una specie di stagno, o forse era solo una pozza, che sulla riva brulicava di minuscole rane. Io impazzivo per quelle ranocchie, e un giorno ne misi una decina in un barattolo per portarle a casa. Volevo fare a ognuna un cappellino di carta, ripiegando fogli di giornale a forma di barchetta. Inutile dire che mia madre non gradì affatto la mia idea. Mi disse che sarebbero morte tutte lontane dall’acqua. Questa notizia mi convinse a riportarle a casa loro, ma non prima di aver fatto loro i cappellini però. Fatto il primo, che tutto sembrava tranne un cappellino, volevo metterlo in testa alla prima fortunata, ma fortunate furono le altre, che saltarono fuori dal barattolo appena tolsi il tappo, sparpagliandosi in ogni angolo della stanza.
Quando ricordo la mia infanzia, mi viene da sorridere ripensando ai nostri giochi e ai nostri discorsi, e mi rendo conto di essere fortunata, perché ho avuto un’infanzia felice. Se penso a me bambina provo una tenerezza infinita, perché a quella biondina un po’ maschiaccia, che amava gli animali e odiava le bambole, proprio a lei che non si ammalava mai (non senza disappunto, dato che non perdeva mai un giorno di scuola), era riservato un destino così duro e devastante.
Gioca Laura, divertiti più che puoi, accumula energia positiva.
Ti servirà per non soccombere sotto gli artigli della SLA.
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